Recanati città dell'Infinito

PAESAGGIO ITALIANO
L’Infinito tra Incanto e Sfregio

Paesaggio-Italiano


1 DICEMBRE 2019 – 15 GENNAIO 2020
Musei Civici di Villa Colloredo Mels


 

L’Incanto, lo Sfregio, il Paesaggio Umano, l’Utopia, il Paesaggio Interiore e la Città. Sono le sei sezioni in cui si articola la mostra fotografica Paesaggio Italiano – L’Infinito tra Incanto e Sfregio, a cura di Vittorio Sgarbi, che andrà in scena dal 1° dicembre 2019 all’8 marzo 2020 al museo civico di Villa Colloredo Mels di Recanati.

Il progetto, promosso dall’associazione culturale Lo Stato dell’Arte, organizzato in collaborazione con il Comune di Recanati e Sistema Museo, nasce da un’idea dei suoi storici collaboratori Sauro Moretti, manager, e Nino Ippolito, ufficio stampa. Nell’anno in cui si celebrano i duecento anni de L’Infinito di Giacomo Leopardi, una rassegna di fotografia contemporanea che racconta il rapporto tra uomo e natura, tema leopardiano e attualissimo.

LA MOSTRA

Il paesaggio italiano in mostra viene raccontato attraverso scatti che sono piccole e grandi storie, dalla bellezza al degrado, nelle immagini di 58 fotografi, tra professionisti ed amatori evoluti, i cui lavori sono stati selezionati da Sgarbi tra migliaia di autocandidature arrivate. Sono 91 le foto in mostra, e non è solo la bellezza ma sono soprattutto le storie dei luoghi e le gesta dei suoi abitanti a segnare il paesaggio italiano nelle sue contraddizioni, tra tran tran quotidiano e situazioni straordinarie, in un passato glorioso col futuro ancora da scrivere.

C’è l’Incanto nella fotografia che registra la bellezza che ci circonda.

come nella veduta del Cretto di Burri nello scatto di Nino Ippolito, la magia del Monte Tabor e del Colle dell’Infinito nelle immagini di Gianfranco Lelj, grande ritrattista dei divi del cinema, nonché fotografo di scena di grandi registi come Federico Fellini, Ettore Scola e Zeffirelli.

E in mostra c’è anche lo sfregio alla natura, all’architettura, alla salute e alla decenza.

Lo sfregio è nell’indifferenza del cittadino alla cosa comune che tutti ci riguarda, come nelle De_Composizioni di Luca Tentorio e Lorenzo Carloni, giovani fotografi che si interrogano sul “cammino” del rifiuto una volta abbandonato al suo destino di prodotto errante. E la testimonianza di un malcostume che ha radici lontane, nella Venezia Sporca di Massimo Bersanetti, che risale agli anni ’70 e a quel che resta dopo un mercato sull’acqua.

Lo Sfregio è la fabbrica monstre incapace di mantenere lavoro e salute, i cui danni sono ritratti con inedita delicatezza in due scatti di Florinda Orsini, allieva dei corsi di fotografia di Inforidea e tratti dal progetto collettivo Luci e Ombre curato da Cristina Mura: dell’Ilva di Taranto vediamo i suoi effetti negli sguardi dei vivi e nella polvere rossa che si accumula sulle tombe.

Sfregio sono i piani regolatori demenziali che affumicano interi paesi senza mai trovare una soluzione al traffico, come nel caso di Lastra a Signa e della sua protesta dei lenzuoli, portata in mostra nello scatto “Ero un lenzuolo bianco” di Daniele Pisani. Sfregio sono le bagnarole dei migranti affondate e lasciate a marcire sulle coste del Sud Italia, come testimonia Andrea Imbrauglio, sono gli ecosistemi calpestati per cause di forza maggiore nell’immagine di Enrico Angheben, sono le targhe poste a memoria di chi poteva essere salvato proprio da chi le ha messe lì, ex post, nella foto di Fabiano Anello.

E c’è il Paesaggio Umano, che ci mette davanti immagini che sembrano scattate negli anni ’70 e che invece raccontano un presente italiano che di lasciar andare il passato non ne ha la minima intenzione.

C’è il fascino perenne del mangereccio abbordabile delle sagre di paese, incrollabile tradizione italiana (nello scatto “Da Gigina” di Antonio Baratto), ci sono gli umarell annoiatissimi che mai si danno per vinti – gli anziani intenti a fare gli anziani in città – nello scatto milanese del giovane fotografo Alessandro Giugni; le processioni religiose che sembrano un set di Dolce & Gabbana; gli ambulanti che ancora girano di casa in casa con i loro mille prodotti da vendere (Canzio Oricchio, fotografo passeggiatore); le vacanze spiaggiate, immortalate dall’avvocatessa e fotografa Paola Bellomo, con pranzi pantagruelici al seguito che richiedono la fatica di almeno tre generazioni di famigliari per traslocarli fronte mare; chi non ha ancora il condizionatore in casa e corre ai ripari contro il caldo dell’ultima estate micidiale, nello scatto napoletano di Carlo Marchisio.

Tutte immagini di un’Italia che resiste al contemporaneo e se ne frega, tra lamentele, usi e costumi duri a morire.

Ci sono i senzatetto sfiniti e quelli che resistono, nei ritratti neorealistici di Paolo Cudini; e c’è lo scatto degli allievi del corso di fotografia Inforidea nel carcere di Avezzano, partecipanti dall’interno della prigione al progetto Luci e Ombre – e non si sa chi l’abbia scattata, poiché le macchine fotografiche venivano usate da tutti i detenuti, tra i quali l’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, anch’egli parte del progetto ed autore certo dell’azzeccato titolo: Insieme (ma non) per forza.

C’è l’Utopia dei non-luoghi, posti che avevano vita e scopi ed ora semplicemente sono lì, senza la speranza di nuova destinazione o di un restauro conservativo.

Ci sono le ex fabbriche colossali, non più cattedrali del lavoro ma personaggi in attesa di Godot, come nello scatto dell’ex tubificio Vianini di Dorotea Rossi; i blocchi in mattone che nascondono ex impianti di lavorazione di concimi chimici, col loro segreto di metalli pesanti e sostanze tossiche che continuano a far compagnia agli ignari bagnanti nello scatto dell’archeologo Matteo Tadolti; le orecchie ormai sorde della guerra fredda che ancora si stagliano nel panorama del Monte Giogo (Emanuele Barbieri); le piscine delle ville abbandonate, ormai regno di vegetazione, ruggine e visioni di ciò che è stato negli scatti glamour di Ulyana Accaramboni.

C’è la tragedia annunciata in un’immagine – Vite appese a un filo – che ferma il tempo poche ore prima di una storia nera di omicidio/suicidio che nel 2017 sconvolse la città di Ferrara e che distrusse in un colpo solo l’ultima di una generazione di antiquari e la loro casa, nello scatto premonitore della ferrarese Sara Gazzotti.

Il Paesaggio Interiore, lo stato d’animo che ci portiamo dentro e che va a intaccare anche il paesaggio in cui viviamo.

È quello espresso negli scatti di Fabiola Catalano, dove nelle stanze chiuse si manifesta, capovolto, il panorama esterno, come i tormenti interiori dei suoi protagonisti. Può essere una sensazione comune, a chi scatta e a chi guarda, un panorama che si fa ricordo di amori passati, che evoca profumi, odori e canzoni solo a guardarlo, come i resti della camporella di Giuseppe De Berti.

Ma è una debolezza svelata, che si fa conquista del sé e del trauma personale archiviato, non più nascosto e quindi finalmente battuto, un reduce che si porta a casa ferite e vittoria: ed è l’autoscatto con cicatrice nel bosco di Emily Luchini. Ma il Paesaggio Interiore può essere un luogo segnato per sempre dalle vibrazioni di un delitto, che la foto coglie poco prima che accada, come la pagina che precede la scoperta dell’assassino, e questo capita nella pineta de Il Cannibale immortalata dall’avvocatessa e fotografa Annamaria Pinciotti. E c’è la vita da spiaggia che non deve, non può e non vuole essere disturbata nemmeno da una nave che sta oscurando il cielo coi suoi fumi velenosi, nella foto di Laura Ruggiero.

E poi c’è la Città, fonte di ispirazione inesauribile.

C’è lo scatto di Ottavio Colosio, La Tonnara – nome in gergo che gli operatori tv danno all’ammassamento convulso dei giornalisti intorno al personaggio del giorno – ripresa a Milano. E nei palazzi delle città, stretti gli uni con gli altri, piano su piano, si esalta anche l’odio più naturale del mondo, quello per i propri vicini di casa che, ne I Blasonati di Giovanni Ruggeri sono esposti per quello che sono: palazzi signorili davanti, orrendi ballatoi fatiscenti di dietro.

 


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